a cura della dott.ssa Barbara Pasini, psicologa psicoterapeuta
Nell’accezione comune il temine “gioco” si discosta completamente da una qualsiasi connotazione di “serietà”. Se però ci soffermiamo sulla citazione di Montaigne, notiamo come sia sinonimo di azione seria quando ci riferiamo ad un bambino:
“i giochi dei bambini non sono dei giochi, bisogna invece valutarli come le loro azioni più serie”.
Possiamo, infatti, notare come sia sinonimo di azione seria quando ci riferiamo ad un bambino. Ogni bambino gioca naturalmente, perché prova una sensazione di benessere; nulla quindi è tolto all’aspetto ludico in se stesso, ma, anzi, è proprio il piacere intrinseco nel gioco che comporta e favorisce nuove componenti.
Per i bambini, che giocano per divertirsi, non c’è nessuna differenza tra il gioco e ciò che un adulto potrebbe considerare come un lavoro. Solo più tardi, quando il bambino sviluppa abilità cognitive più avanzate, inizia a comprendere il legame tra causa ed effetto ed a distinguere ciò che si deve fare da ciò che è piacere.
Attraverso il gioco il bambino apre al funzionamento di ciò che ha intorno: che cosa si può o non si può fate con determinati oggetti, si rende conto dell’esistenza di leggi del caso e della probabilità e di regole di comportamento che vanno rispettate.
L’esperienza del gioco insegna al bambino ad essere perseverante e ad avere fiducia nelle proprie capacità; è un processo attraverso il quale diventa consapevole del proprio mondo interiore e di quello esteriore
Le attività ludiche a cui i bambini si dedicano si modificano via via, di pari passo con il loro sviluppo intellettivo e psicologico, ma rimangono un aspetto fondamentale della vita di ogni individuo, in tutte le fasce d’età.
Il gioco è significativo per lo sviluppo intellettivo del bambino, perché il bimbo, quando gioca, sorprende se stesso e nella sorpresa acquisisce nuove modalità per entrare in relazione con il mondo esterno. Nel gioco il bambino sviluppa le proprie potenzialità intellettive, affettive e relazionali. A seconda dell’età, il bambino nel giocare impara ad essere creativo, sperimenta le sue capacità cognitive, scopre se stesso, entra in relazione con i suoi coetanei e sviluppa quindi l’intera personalità.
Al di là delle diverse correnti di pensiero, risulta evidente come il gioco è altamente significativo per la crescita del bambino, perché svolge una funzione strutturante dell’intera personalità. I bambini reagiscono con entusiasmo alla disponibilità dei genitori a giocare con loro: lo scoprire che possano mostrare interesse e che possano coinvolgersi in un’attività da loro considerata seria, è motivo di grande felicità ed è un modo che consente loro di rafforzare il senso di sicurezza e protezione. In ogni caso, è necessario garantire e restituire ai bambini il tempo e lo spazio per dare libero sfogo a tutte le loro pulsioni interne e assicurare loro una certa complicità senza svestirsi del ruolo di guide. Intorno agli 8-12 mesi, inizia la fase che si definisce “dell’oggetto transizionale“! Quella famosa, calda e avvolgente “copertina di Linus”, quel morbido peluche, quel fazzolettino anche vecchio e usurato o quel foulard profumato “di mamma” che a un certo punto diventano una necessità quasi ossessiva per il bambino, oggetti da cui non vuole mai distaccarsi e che gli danno serenità e pace ogni qualvolta li stringe tra le manine. Può essere infatti, qualunque cosa purché gli dia sicurezza quando la mamma è lontana e spesso è il gioco più usato e anche quello più rovinato. Oggetti che sono una piccola parodia del bisogno di sicurezza e dcl percorso individuale che ciascuno fa per trovare la propria serenità. I bambini, fin dalla nascita, si vivono come un tutt’uno con la figura materna, una sorta di “simbiosi” per cui non riescono a distinguere che in realtà lui e la mamma sono due persone e unità ben distinte e separate.
Quando giungono le prime fasi, in cui si crea gradualmente questa distinzione, data dall’ingresso della funzione paterna, il nostro piccolo deve fare un ulteriore fatica: capire che, anche quando la mamma non è più davanti alla sua vista, non è perché è sparita e non ci sarà più, ma che il distacco e l‘assenza sono uno stato transitorio, perché poi la mamma torna velocemente! Quando il bambino non lo sa, non lo capisce subito e deve apprenderlo con l’esperienza reale.
Ecco perché si può presentare quella fase definita “angoscia da separazione” quando la mamma comincia a lasciado le prime volte: al nido, dai nonni, in braccio ad altre persone, o una qualsiasi assenza anche breve. Il bimbo vede sparire la propria mamma e per lui corrisponde ad una sorta di “non c’è più”!
Quando si fa il giochino del “cù-cù” con i piccolini e ci si nasconde, dapprima dietro le mani, poi dietro un divano, il bambino sorride quando ci vede ricomparire, questo non è perché si diverte, ma perché si rassicura ed è contento nel rivedere i suoi punti di riferimento! Questo è il primo esempio dell’apprendere il meccanismo del “anche se non mi vedi ci sono, tomo”! In questa cornice dobbiamo ricollocate il significato dell’oggetto transizionale, cioè quell’oggetto che ci aiuta a sopportare meglio l’assenza.
Una volta cresciuto, il bambino sa immaginare la mamma quando non c’è, ed è in grado di sopportare meglio la separazione; una volta a scuola, o in situazioni simili, saprà gestire il suo oggetto, come in realtà lo sa fare a casa, e tornerà a cercarlo solo in momenti di sconforto o di voglia di tenerezza.
Il gioco, quindi, è il linguaggio segreto con cui il bambino esprime in una forma simbolica, difficile da decifrare, i suoi vissuti emotivi, di cui spesso è inconsapevole. Il bambino giocando trova sempre un modo per esprimere ciò che in quel momento gli interessa mettere in atto: invece di subire passivamente una situazione, un sentimento, un conflitto, lo “agisce” in modo simbolico.
La magia del gioco è proprio l’assenza di qualsiasi finalità precisa, facendone uno strumento, usato dal bambino, di puro piacere, che lo distingue da ogni attività di adattamento al monto circostante, ma il suo valore esperienziale permette, al bambino stesso, di apprendere giocando.